picapréda: l’arte di lavorare il granito

 

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parete di granito all’imbocco della Val Codera

Il mestiere di “picapréda” (scalpellino) cominciò a diffondersi nella zona di Novate relativamente tardi. Vi fu importato solo verso la fine del Settecento da un gruppo di scalpellini originari della Val d’Intelvi, che per primi aprirono una cava di granito sulle rive del lago di Mezzola presso la chiesetta di San Fedelino, da cui trasse il suo nome il celebre granito chiamato sanfedelino. Il granito sanfedelino è una pietra a grana fine, costituita da quarzo incolore e da feldspati bianchi a due miche. Presenta ottime qualità di compattezza e di resistenza all’usura che, oramai da due secoli, ne hanno fatto uno dei materiali più ricercati per la pavimentazione di strade cittadine soggette a traffico intenso.

Il mestiere dei “picapréda” non si poteva improvvisare, esigeva un lungo tirocinio, e a quel tempo la popolazione del comune di Novate risiedeva in gran parte ancora nelle frazioni di montagna, lontane dai cantieri della Riva e, trovava sufficienti risorse nel taglio dei boschi, nell’allevamento del bestiame, mentre gli abitanti del fondovalle traevano dall’agricoltura e dalla pesca e dai traffici sul lago quanto bastava ai propri bisogni. Era perciò naturale che sulle prime il lavoro nelle cave, assai faticoso e non privo di pericoli e soggetto a lunghe sospensioni stagionali, non avesse agli occhi della gente un’attrattiva tale da indurla a mutare il tradizionale sistema di vita. La conversione a quel duro lavoro avvenne lentamente, a partire dalla metà dell’Ottocento, e solo sul finire di quel secolo il mestiere dello scalpellino risulta essere l’occupazione prevalente della popolazione maschile del paese.


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un gruppo di picapréda saluta alzando il mazzulo alla cava della “palazzetta”

Con lo sviluppo della ferrovia (1886) anche lungo il tratto Colico-Chiavenna le conseguenze per   l’industria del granito furono immediate; col nuovo mezzo si allargò di molto l’aria di smercio del “sanfedelino”, in quanto fu possibile raggiungere molte altre città che la consueta via d’acqua non poteva servire direttamente; così di lì a poco l’uso dei barconi per il trasporto dei materiali cessò del tutto. La forte richiesta di nuovi manufatti, soprattutto masselli e cordoni, che veniva da Milano e da altre città del nord Italia rese necessario potenziare l’escavazione del granito che, tra fine Ottocento e inizi Novecento, fu estesa all’intera cerchia dei monti che circondavano a nord e a levante i paesi di Novate e di Campo, incuneandosi per un certo tratto anche nella Valcodera.

All’espansione delle cave contribuì anche l’introduzione delle teleferiche, e che da Novate permisero di raggiungere e sfruttare parecchi importanti filoni di granito ad alta quota. I blocchi di pietra estratti su quelle balze fuori mano, dopo essere stati tagliati e sommariamente sbozzati sul posto, venivano spediti col nuovo mezzo ai cantieri del fondovalle per la rifinitura e la spedizione.


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gruppo di operai del cantiere della Foppa – la più importante cava di sanfedelino per ricchezza del giacimento e qualità del granito

Picapréda” è il nome con cui nel dialetto di Novate si designa usualmente, da sempre, lo scalpellino. Deriva dal verbo “picà” (battere, picchiare) e dal sostantivo “préda” (pietra). In verità con questo termine si comprendono tre distinte categorie di lavoratori del granito. La prima e anche la più numerosa è quella dei “fatturanti”, cioè degli operai che negli appositi cantieri provvedono a rifinire i pezzi di pietra grezza appena sagomati dai tagliatori, approntandoli per la spedizione e la posa in opera. La carriera del “picapréda” un tempo cominciava fin dalla fanciullezza, l’apprendistato poteva partire anche dagli undici anni, erano i cosidetti bòcia”. Naturalmente erano adibiti a lavori leggeri: aiutavano il fabbro nella fucina del cantiere azionando la manovella della forgia, portando agli scalpellini i ferri riparati e ritirando quelli spuntati da aguzzare, e nella stagione calda, provvedevano a distribuire bevande fresche prelevate dai crotti. Verso i quattordici anni cominciavano a maneggiare il mazzuolo e lo scalpello e scoprivano piano piano i segreti del mestiere e a diciotto anni i più svegli erano in grado di affrontare da soli la lavorazione di tutta la serie dei manufatti consueti: lastre, masselli, panò e cordoni. Solo in pochi si specializzavano nei lavori di fino. Non va dimenticato che i primi scalpellini venuti dalla Val d’Intelvi, e quelli che li seguirono, seppur chiamati a lavorare in prevalenza lastre e masselli per le strade di Milano, erano anche raffinati artigiani della pietra, avendo alle spalle una lunga tradizione che risaliva ai celebri “maestri Comacini”. Alla loro scuola si formarono anche a Novate eccellenti scalpellini, la cui abilità si vede ancora oggi degnamente testimoniata in vari monumenti disseminati in borghi della provincia.


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un picapréda mentre lavora una lastra di sanfedelino

Il lavoro del “picapréda” era per sua natura molto faticoso e comportava gravi disagi. Si svolgeva totalmente all’aperto e l’operaio, costretto a battere tutto il giorno sulla pietra entro il breve spazio che gli era concesso, si trovava esposto a tutte le intemperie. Solo in inverno, quando il sasso gelava, si sospendevano i lavori, perché il granito in quelle condizioni, mal risponde all’azione dello scalpello. Nei mesi più caldi l’inizio dei lavori veniva anticipato alle prime luci del giorno e cessava verso mezzogiorno quando la calura si faceva insopportabile.

Il più frequente infortunio era quello delle ferite alla mano sinistra, che impugnava lo scalpello e che ai colpi falsi del mazzuolo non potevano opporre altro riparo che la semplice “manèta”, una piccola fascia di gomma in forma di mezzo guanto. Pericolose erano le ferite agli occhi provocate dalle schegge che sprizzavano improvvise dalla pietra e dagli stessi scalpelli. I rischi più gravi erano quelli derivanti dalla caduta di sassi dall’alto, ma su tutti prevaleva la minaccia della tipica malattia professionale di questo mestiere: la silicosi, conseguente alle aspirazioni delle sottili polveri di silicio che si producevano durante la lavorazione del granito. Questa malattia era causa di morte precoce e rendeva assai penosi gli anni della vecchiaia.


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i picapréda Luciano e Gino Pisnoli durante la dimostrazione di taglio e lavorazione del granito sanfedelino a Codera il 23 luglio 2016

Un’altra categoria di “picapréda” era costituita dai tagliapietra o tagliatori, cioè gli operai cui era affidato il non facile compito di ricavare dai grossi blocchi, staccati con le mine, i pezzi nelle dimensioni richieste per farne lastre, masselli o cordoni, che poi i fatturanti provvedevano a ridefinire nei cantieri del fondovalle. Prima che si adottassero i moderni martelli pneumatici, l’operazione del taglio era fatta interamente a mano. Con una specie di scalpello a punta (“fèr quadar) il tagliapietra faceva una serie di piccoli fori, a distanza ravvicinata, lungo la linea di uno dei piani di frattura tipici del sanfedelino: quello della “piòda” e quello del “trincante” tra loro perpendicolari. Entro questi fori venivano inseriti dei corti scalpelli o cunei (“punciòt”) che venivano ripetutamente battuti con leggeri colpi di mazza fino a produrre la frattura voluta. Di particolare prestigio godeva la ristretta categoria dei minatori chiamati a procurare la materia prima indispensabile all’attività della cava. Un lavoro pericoloso per l’ingente uso di esplosivo e per l’enorme destrezza per calarsi lungo ripide pareti, quasi senza protezione, sull’orlo di precipizi. Una menzione va anche alla figura del fabbro che doveva provvedere con massima sollecitudine a riparare i ferri degli scalpellini.


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utensili utilizzati dai picapréda conservati al Museo storico etnografico e naturalistico della Val Codera

Per concludere il discorso sui “picaprédaRicordiamo che Novate fu un paese che richiamò sempre un gran numero di operai forestieri fin da quando si cominciò a lavorare il granito: dapprima vennero quelli della Val d’Intelvi, poi dagli inizi del nostro secolo, comparvero operai anche di regioni lontane (Toscane, Campania, Calabria, Puglia) ma il grosso venne dal Veneto e dal bergamasco. L’attività delle cave conobbe però momenti di crisi e, sebbene meno esteso si verificò il fenomeno inverso, di operai novatesi costretti a cercar lavoro altrove, per lo più all’estero (Germania, America, Francia, Svizzera). Anche fuori dei confini d’Italia questi ultimi lavoratori tennero alto il buon nome del luogo natìo.



Tratto da “Novate e i suoi picapréda. Due secoli di storia della lavorazione del granito “sanfedelino” di Sandro Massera, IX Quaderni del Centro di Studi Storici Valchiavennaschi, Sondrio 1996

Le fotografie storiche sono contenute nel volume sopra citato

 

 

 

 

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